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Drammaterapia
e teatroterapia a confronto![]() di Daniela Tedeschi Negli ultimi anni lo scenario artistico e teatrale ha riscoperto e valorizzato finalità non soltanto culturali ma anche terapeutiche e riabilitative. Lo conferma la fiorente apertura di spazi e scuole di arteterapia, volte ad allargare il raggio di utenza nel settore sociale. Non più, dunque, un’arte solo per coloro che possono permettersi di stare comodamente in “poltrona” a goderne, ma un’arte che scende in campo in luoghi come scuole, carceri, comunità terapeutiche, rivoluzionando, così lo spazio artistico convenzionale. All’interno di tale prospettiva, anche il teatro si rivolge non solo a scopi ludici e strettamente artistici ma anche a finalità terapeutiche e riabilitative. Tra le varie scuole di questo indirizzo la Drammaterapia di Robert Landy e la Teatroterapia di Walter Orioli, della Scuola di Teatroterapia di Monza, occupano un posto molto importante. I presupposti teorici da cui partono entrambe le scuole sono pressoché simili, dato che abbracciano un vasto spettro teorico che va dal teatro classico a quello di ricerca detto “povero” e dalle teorie psicologiche psicodinamiche a quelle socio-cognitive. Si evince, dunque, da tale similarità teorica tra due approcci che sono pur sempre differenti, la facilità con cui il teatro, nel suo significato più ampio, si presta a diverse interpretazioni, forse proprio per la capacità di creare uno spazio “extraquotidiano” all’interno del quale può accadere “tutto”, può presentarsi la Vita nella sua complessità e nella sua ricchezza di gesti e sentimenti. |
La
drammaterapia e la teatroterapia
hanno, dunque, in comune l’aver posto in risalto gli aspetti
intrinseci del teatro come potenziali fautori di cambiamento. Da secoli
ormai l’aspetto catartico del teatro è ampiamente
riconosciuto; ma ciò di cui tale arte è capace
non si
limita solo ad un cambiamento intuitivo e di consapevolezza personale,
essa può spingere chiunque la pratichi a cambiamenti
profondi,
cognitivi e comportamentali rispetto alla percezione di sé,
degli altri e di sé in relazione agli altri. La
drammaterapia e
la teatroterapia non sono dunque in antitesi, al contrario.
Ciò
che sta alla base della loro differenza sono le premesse
epistemologiche relative all’arte attoriale. Non è
mia
intenzione, in questa sede, descrivere dettagliatamente in cosa
consistono tali attività quanto cercare di sollevare i punti
di
distinzione; seguiranno, dunque, brevi descrizioni della drammaterapia
e della teatroterapia; per maggiori approfondimenti si rimanda agli
spunti bibliografici. Drammaterapia Il focus di attenzione della Drammaterapia è il ruolo, punto cardine del concetto di personalità intesa proprio come sistema di ruoli interrelati, che apporta, a livello comportamentale, ordine e propositi. Landy definisce, infatti, il ruolo come “il contenitore dei pensieri e dei sentimenti che abbiamo di noi stessi e degli altri, dei nostri modi sociali e immaginari”. L’interpretazione del ruolo a livello drammatico, secondo questa ottica, dunque, sintetizza i naturali processi di assunzione di ruoli che attuiamo durante la nostra crescita evolutiva, ossia: imitazione, identificazione, proiezione e transfert; la rappresentazione scenica del ruolo, è il risultato di un lavoro intrapsichico fatto su di sé ed esternato all’interno di un contesto di “gioco”. Proprio in questa cornice di “come se” il concetto di distanziamento usato da Landy trova il suo significato. La distanza che pone l’attore tra sé e il suo ruolo rappresenta lo stesso confine che l’individuo pone tra sé e il non-sé; l’esame di tale distanza costituisce per la drammaterapia un aspetto importante al fine di rispettare l’individuo e la sua modalità di vivere i propri ruoli e quelli degli altri. Secondo questa ottica, infatti, le persone si possono dividere in una serie di tipologie che fanno capo a due categorie opposte: le persone iperdistanti che a livello intrapsichico si presentano generalmente rigide, controllate e dal repertorio di ruoli altamente limitato e poco flessibile; le persone ipodistanti, generalmente vulnerabili in seguito allo scarso controllo emozionale, il cui repertorio di ruoli è molto ampio al punto che trovano difficile individuare una propria unicità. Uno degli scopi della drammaterapia è proprio quello di calibrare la distanza psicologica di un individuo rispetto al mondo relazionale in cui vive, affinché raggiunga una propria identificazione indispensabile ad affrontare, in maniera adattiva, le diverse situazioni. La strutturazione della seduta di Drammaterapia si avvale di tre parti distinte: la prima è il warm-up, o fase di preparazione, che può essere verbale o non verbale e mira a portare il soggetto ad un miglior contatto con le parti di sé, al fine di focalizzare l’attenzione e scegliere un ruolo (o meglio, come direbbe Landy, “farsi scegliere” più facilmente dal ruolo). La seconda parte è quella dell’azione in cui si estendono i ruoli e i sentimenti evocati nel warm-up; il terapeuta determina spesso la tecnica drammatica specifica per la rappresentazione, sebbene incoraggi il cliente a recitare secondo la modalità a lui più congeniale. In molti casi il terapeuta secondo alcuni criteri sceglie un protagonista e il resto del gruppo fa da IO ausiliare. Infine la chiusura, un momento molto delicato, riporta l’attenzione all’unità del gruppo e si pone in maniera propositiva nei confronti di ciò che è emerso durante l’azione. Teatroterapia Nella Teatroterapia l’arte attoriale è “rivoluzione”, nell’eccezione positiva del termine, come processo di rinnovamento continuo e profondo dell’individuo. Per cui in quest’ultima disciplina la complessità della persona e la poliedricità di ruoli che le appartengono non mirano ad essere ordinati in tipologie ben definite, che rimandano pur sempre ad acquisizioni sociali; al contrario, tale complessità viene ricercata, rivalorizzata. Questa ricerca si compie attraverso un lavoro pre-espressivo che riscopre gli aspetti più diversi del linguaggio, gli atti e i significati simbolici e rituali che essi richiamano, giungendo ad un livello profondo del sé della persona, un livello quasi primordiale rispetto alle origini di ogni individuo. Il pre-espressivo è la ricerca degli aspetti universali dell’arte attoriale finalizzata ad individuare la tecnica delle tecniche per imparare ad apprendere l’arte attoriale. In questo senso lo studio del pre-espressivo supera il “ruolo”, perché indaga gli aspetti coincidenti tra le differenti culture, i principi che ritornano in ognuna di esse e che precedono e rendono possibile l’espressione artistica. Nella drammaterapia il punto di partenza sono i ruoli socialmente condivisi ed il processo mira a far sì che il soggetto riconosca in sé tali ruoli, dissolvendo gli eventuali conflitti tra di essi ed aspirando ad un “sano” equilibrio, nella teatroterapia ciò non viene contemplato se non come un aspetto successivo scaturito nell’hic et nunc del contesto specifico in seguito al lavoro pre-espressivo. In questo modo il “ruolo” non è più concepito come tipologia di comportamenti indipendenti dal contesto in cui si generano e quindi ripetibili a prescindere da essi, ma come una cornice che l’individuo si costruisce interconnessa con l’intero sistema ambiente – teatro - in cui è inserito. Il teatro rappresenta la pars pro toto rispetto alla vita quotidiana e in esso gli eventi sono pure la pars pro toto degli eventi quotidiani; per questo la teatroterapia non propone ruoli a priori, ma aspetta che nascano naturalmente nel sistema stesso. Il lavoro pre-espressivo, dunque, è importantissimo non solo perché coglie i principi universali ma anche in quanto crea il substrato necessario attraverso cui è possibile “comunicare”. Eugenio Barba, uno dei più importanti autori di riferimento della scuola di teatroterapia e massimo esponente dello studio del pre-espressivo, sostiene che sulla scena l’attore rivela se stesso tanto da non possedere più neppure un personaggio; egli porta in scena il “dramma spirituale” lasciando ad ogni individuo, che sia attore o spettatore, la libertà di cogliere ciò che è in grado di cogliere. Ciò pone in evidenza due aspetti importanti: il primo è proprio la relatività del ruolo in senso stretto, in quanto l’attore è chiamato a portare in scena qualcosa di più, un messaggio, che ognuno leggerà a suo modo. Il secondo punto, non disgiunto dal primo, riguarda il pubblico; nella teatroterapia il pubblico assume una funzione attiva, non si limita più ad essere un osservatore esterno che subisce la rappresentazione ma attivamente la trasforma e contribuisce a darne significato. In questa nuova cornice, dunque, il ruolo è solo un mezzo attraverso cui raggiungere gli strati più profondi della propria personalità. Un altro aspetto che va sottolineato quando si parla di teatroterapia è l’accento posto sul processo teatrale, che si attiva nel momento in cui un gruppo di persone si unisce per iniziare questo tipo di attività. L’idea del processo teatrale come percorso in continua evoluzione modifica anche l’idea di rappresentazione che non può concludersi in una serata. Per questo in teatroterapia si usa chiamare il prodotto “finale” non spettacolo ma “transizione”, per l’intrinseco significato di cambiamento, evoluzione del lavoro teatroterapeutico che non è mai concluso, in quanto le persone stesse non finiscono mai di comunicare, di esprimere se stesse ed arricchirsi di nuove e significative esperienze. Se consideriamo il teatro come un sistema complesso, dinamico, autorganizzantesi, all’interno del quale le relazioni fra gli elementi sono più importanti della natura degli elementi stessi, potremmo concepire la transizione come un momento del processo attoriale, non conclusivo ma di passaggio, che nasce dall’esigenza del gruppo di cambiare e non una tappa obbligata finalizzata a mostrare agli altri (gli spettatori) il proprio prodotto. Secondo la scienza della complessità che studia, appunto, i sistemi complessi, dopo un lungo percorso il sistema giunge ad un livello critico che sfocia nella cosiddetta “biforcazione catastrofica”: ovvero il punto di svolta in cui il sistema si riorganizza in maniera nuova e più evoluta. Nel lasso di tempo che precede la biforcazione la comunicazione nel sistema non è più gestita efficientemente, ma diventa apparentemente caotica. Dopo varie fluttuazioni però il sistema si riorganizza superando la crisi con scelte creative incredibilmente originali. Il nuovo livello non sarà mai uguale al precedente ma sarà sempre più complesso e la comunicazione sarà più organizzata, efficiente e dinamica. Si pensi allo stesso modo ai momenti che precedono la rappresentazione teatrale, in cui i livelli di ansia e stress sono molto alti e il gruppo sembra muoversi nella preparazione caoticamente, i malumori nei confronti del conduttore si acuiscono creando anarchia. Ma quando si entra in scena è come se ogni pedina prenda il suo posto, tutto è pronto, il gruppo entra, si apre una nuova dimensione... pronti si parte! Alla fine non si sarà più quelli di prima. Daniela Tedeschi Riferimenti bibliografici E. Barba, La canoa di carta, Il Mulino, 1993. E. Barba, Teatro, solitudine, mestiere, rivolta, Ubulibri, 1992. A. Gandolfi, Formicai, imperi, cervelli - introduzione alla scienza della complessità, Bollati Boringhieri, 1999. R. Landy, Drammaterapia concetti, teorie e pratica, Edizioni Universitarie Romane, 1999. P. Watzlawick, Il linguaggio del cambiamento, Feltrinelli, 1999. W. Orioli, Far teatro per capirsi, Macro edizioni, 1996 |
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